Arte

Beni culturali e ambiente

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Tra i più clamorosi c’è quello concernente … l’obelisco di New York. … la quantità di detriti raccolti in un anno … ai piedi dell’obelisco sarebbe stata sufficiente a costruire una casa.

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Il degrado del nostro patrimonio artistico ha ormai raggiunto uno stadio di estrema gravità. Statue, palazzi e bronzi all’aperto mostrano segni di corrosione così devastanti da offendere profondamente il nostro senso estetico.

Giova sottolineare che anche le rocce naturali sono soggette allo stesso tipo di degrado. Si tratta tuttavia di un fenomeno per noi impercettibile in quanto si svolge sulla scala dei tempi geologici. Con l’elevata quantità di sostanze chimiche presenti nelle aree urbane si spiegano i tempi estremamente brevi impiegati dal degrado ad attaccare monumenti, statue e palazzi che adornano le nostre città.

Alcuni fattori climatici locali giocano un ruolo determinante nell’accelerare vieppiù il processo di degrado.

Tuttavia l’obiettivo di tracciare un quadro di natura scientifica atto a descrivere il meccanismo d’attacco dei marmi da parte dell’ambiente è un compito estremamente arduo. La varietà dei fattori in gioco è così ampia che raramente lo studioso riesce a stabilire quantitativamente l’importanza degli uni rispetto agli altri.

Eppure la ricerca del meccanismo di degrado in atto su un’opera d’arte è necessario. Qualsiasi tipo di intervento di restauro e protezione è destinato ad avere successo soltanto se sono conosciute le cause del degrado. Talvolta l’indagine avente lo scopo di ricostruire il processo di attacco si presenta nella veste si un vero e proprio rebus.

Tra i più sconcertanti c’è quello riguardante il degrado dell’obelisco di New York. Donato nel 1880 al popolo statunitense dal Re d’Egitto fu montato in Central Park e viene comunemente chiamato “l’ago di Cleopatra”.

Fin dai primi tempi della sua installazione si osservò che da una delle facce del monolite (a sezione quadrata) si distaccavano schegge di granito che cadevano a terra in gran copia. Stando alle cronache dei giornali la quantità di detriti raccolti in un anno dalla nettezza urbana ai piedi dell’obelisco sarebbe stata sufficiente a costruire una casa.

Non c’è spazio per elencare in dettaglio le tappe del progresso conoscitivo che portò gli scienziati alla soluzione dell’enigma.

Il primo fenomeno da spiegare riguardava il fatto che soltanto uno dei quattro lati dell’obelisco era soggetto al rapido processo di sfaldamento. Sugli altri tre non se ne notava traccia tanto che i geroglifici che li adornavano erano del tutto intatti mentre in quello danneggiato erano divenuti in pochi anni praticamente illeggibili.

Un’indagine approfondita sulla struttura del monolite corredata da esperimenti di laboratorio dimostrò che il processo di degrado era dovuto alla cristallizzazione di sali da soluzioni acquose. Se l’acqua di una soluzione salina evapora completamente lascia come residuo il sale in forma solida. Il sale cristallizzato ha un volume maggiore di quello della soluzione. Se la soluzione acquosa occupa interamente un alveo ristretto, la cristallizzazione dei Sali per evaporazione dell’acqua liquida è in grado di esercitare pressioni elevatissime sulla parete. Nel caso dell’ago di Cleopatra i sali erano contenuti nei microscopici interstizi della struttura del granito. Come l’umidità relativa dell’aria aumentava, i pori si imbibivano di acqua formando soluzioni acquose dei sali stessi. All’abbassarsi dell’umidità relativa, l’acqua evaporava dall’interno del granito. I sali cristallizzavano esercitando, per aumento di volume, azioni di natura disruptiva sulle pareti dei pori frantumandoli. Di qui la pioggia di schegge sul terreno circostante.

La spiegazione di come mai soltanto uno dei quattro lati conteneva sali nella struttura superficiale fu fornita da un’indagine concernente la “storia” passata dell’obelisco. Assieme a un obelisco gemello fu fatto costruire dal Faraone Thutmose nel 1550 a.C. e montato alle porte della città di Eliopoli (l’attuale Cairo). Nel 43 a.C. Giulio Cesare decise di rimuovere ambedue i monoliti per installarli ai lati del porto di Alessandria.

In realtà furono adagiati sul terreno vicino alla costa dove rimasero sino alla fine del secolo scorso. Il velo cominciava a squarciarsi. L’acqua dei fiumi e del mare allagava occasionalmente la località fino a bagnare il suolo sul quale giacevano i due obelischi. Tuttavia la faccia dell’obelisco arricchitesi dei sali contenuti nelle acque non era quella adagiata sul terreno. A causa della microscopica struttura porosa del granito l’acqua dell’inondazione fu trasportata per capillarità sulla faccia opposta, dalla superficie della quale evaporò nell’aria sovrastante arricchendo di sali la struttura superficiale del granito rivolta verso il cielo.

Ma la storia non finisce qui. Nel 1878 il Re d’Egitto aveva donato al popolo inglese l’obelisco gemello di quello del Central Park. Anch’esso è fatto dello stesso raro granito roseo delle miniere di Syene e anch’esso pesa 200 tonnellate come l’altro. La copia perfetta dell’obelisco statunitense fu montata nel centro di Londra sulle rive del Tamigi.

L’ago di Cleopatra londinese non aveva mai dato il benché segno di sfaldamento. La sua superficie è rimasta perfettamente intatta e i geroglifici sono egualmente leggibili sulle quattro facciate. Come mai non ha subito lo stesso degrado del gemello? Eppure le variazioni di umidità relativa dell’aria di Londra non sono di molto diverse da quelle di New York. In terra egiziana i due obelischi erano rimasti adagiati sul terreno l’uno vicino all’altro per circa 2000 anni. Non c’era nemmeno da supporre che uno dei due fosse rimasto all’asciutto per tanto tempo.

Il mistero fu risolto quando in un polveroso archivio di stato inglese fu trovato un documento datato 1878 con cui il governo di S.M. Britannica ordinava a una ditta una enorme partita di cera d’api.

Il solerte funzionario inglese che nel 1878 prese in consegna l’obelisco si premurò di cospargerne di cera l’intera superficie. La cera liquida (calda) era penetrata per capillarità nella struttura porosa del granito isolandola (una volta raffreddatasi) dall’acqua di condensazione. Era penetrata così profondamente nell’interno del manufatto da non lasciar traccia in superficie.

È superfluo aggiungere che, chiarito il mistero, anche l’ago di Cleopatra del Central Park fu soggetto allo stesso trattamento protettivo.

Tra gli elementi da acquisire per effettuare una corretta diagnosi del degrado c’è quindi anche la storia “del manufatto”, vale a dire da quale miniera fu estratto il minerale, in quale località l’opera d’arte è stata via via installata nel corso del tempo passato e infine chi fu l’artista che lo lavorò.

A proposito dell’importanza di quest’ultimo fattore giova ricordare che in tutti i racconti della vita di Michelangelo viene menzionata la sua puntigliosa ricerca (da alcuni definita maniacale) della miniera di marmo dalla quale estrarre il blocco da lavorare. Ebbene, le statue di marmo di Michelangelo, anche quelle esposte all’aperto per secoli, non mostrano alcun segno di degrado.

Ottavio Vittori

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