Pianeti

Alla ricerca del Pianeta Fantasma

 

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Agli inizi del ‘600 Johannes Kepler … confermò che la Terra non era al centro del sistema solare … i pianeti si muovevano intorno al Sole ….

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Pitagora introdusse il termine “proporzione armonica” per definire terne di numeri tali che «se il primo è maggiore del secondo di una certa parte di se stesso, il secondo è maggiore del terzo della stessa parte del terzo».

Un esempio è la terna 12, 8, 6. 12 è maggiore di otto di 4 che è un terzo di 12 ed 8 è maggiore di 6 di 2 che è un terzo di 6. Lo stesso Pitagora scoprì che le note della scala musicale erano emesse dalla vibrazione di corde le cui lunghezze stavano in proporzione armonica. L’ottava era definita da due suoni, uno emesso dalla corda intera e l’altra da corda di metà lunghezza (in rapporto quindi 1 a 1/2 ovvero 12 a 6) e la quarta da 2/3 a 1/2 cioè da 8 a 6. Ricompare la terna 12, 8, 6. Non è dato di saper se, con la considerazione tutta speciale che egli doveva avere per la matematica, chiamò armonici i numeri in relazione ai suoni o viceversa.

Il concetto passò poi all’astronomia, anche se non è provato che la ricerca di certi rapporti armonici nelle posizioni degli astri fosse dovuta a iniziative dello stesso Pitagora.

Ciò che si sa è che su convinzioni arbitrarie, che forse si rifacevano a visioni mistiche del Vicino Oriente, si affermò nella mente dell’uomo il convincimento che le distanze e i moti dei pianeti rispecchiassero analogie armoniche e che le sfere planetarie “vibrando” su “distanze” in proporzione armonica emettessero suoni che si combinavano nella musica della armonia delle sfere celesti.([1])

Questa sorte di misticismo numerico era intimamente legata alla mentalità geometrica della scienza greca e rappresentava, in un certo senso, un primo tentativo di ridurre ad unità i fenomeni naturali e, in particolare, i corpi celesti mediante relazioni numeriche semplici di validità universale. Ciò nonostante, l’influsso di una simile visione finì per rivelarsi più tardi di ostacolo allo sviluppo della scienza occidentale. Quando l’armonia dei cieli di derivazione greca venne incorporata nel cosmo neoplatonico e, col Medio Evo, nell’universo della tradizione giudaico-cristiana, si volle vedere nella bellezza, nella semplicità di questi rapporti armonici, il segno di una perfezione di natura divina. Nel pensiero cosmologico si infiltravano così dottrine e dogmi di natura mistica o religiosa che la “scienza” non poteva verificare né mettere in discussione.

Parallelamente, il concetto di armonia informava un’altra dottrina, l’alchimia, che ebbe in quei secoli una straordinaria fioritura: essa estendeva il concetto di livelli di perfezione ai metalli, anch’essi connessi ai pianeti e quindi alle anime.

Vennero le idee nuove del Rinascimento ma il castello dogmatico dell’universo non ne fu scosso. Agli inizi del ‘600 Johannes Kepler, elaborando i dati relativi alle osservazioni planetarie, confermò che la Terra non era al centro del sistema solare e trovò che i pianeti si muovevano intorno al Sole secondo orbite che non erano “perfetti” cerchi, bensì “imperfette ellissi”. Dopo dieci anni dalla pubblicazione della sua principale opera “Astronomia nova” scrisse “Harmonice mundi”. Ripresi alcuni concetti geometrici che stabilivano i criteri con cui valutare i “gradi di regolarità” dei solidi e ciò anche in analogia con le proporzioni armoniche riuscì a concludere che le chiavi delle scale musicali si ritrovavano in certi movimenti dei pianeti. Facendo riferimento all’armonia musicale moderna, che con la sua varietà di espressioni gli offriva maggiori “scappatoie matematiche” rispetto all’antica, determinò i “contrappunti” dell’armonia universale del sistema solare e trovò analogie tra certe grandezze planetarie e le voci di soprano, tenore, basso e contralto.

Pagato poco e a intervalli imprevedibili, la moglie e i figli vittime di malattie mortali, attaccato da tutte le parti, colpito dallo spettacolo crudele della guerra dei Trent’anni, Kepler sembra giocare con queste elucubrazioni geometriche tutte le carte della propria sopravvivenza in un disperato omaggio a un ideale di armonia universale. Forse la lettura della sua “Harmonice mundi” “fa sentire” in modo ancor più drammatico di quanto non facciano celebrate ricostruzioni teatrali la società in cui si svolsero le vicende che il suo illustre contemporaneo G. Galilei avrebbe di lì a poco vissuto.

Si arriva così nel ‘700, il secolo dominato dal pensiero di I. Newton. La fisica che giustifica il moto dei pianti viene stabilita e alcuni quadri formali del sistema solare cambiano. Ma il triangolo dogmatico “artefice che fa le cose perfette – grandezze planetarie – segni di perfezione geometrica” è ancora un tabù. Nel 1766 l’astronomo passato come Titius scoprì una relazione empirica sulle distanze dei pianeti dal Sole, confermata poi dall’astronomo  Bode, che suonava pressappoco così: se si scrive per qualsivoglia volte il numero 4 (4; 4; 4; 4; 4;… ecc.) e si somma il numero 3 al secondo 4, e il prodotto 3 x 2 al terzo, e 3 x 2 x 2 al quarto e così via, si ottengono i numeri 4; 7; 10; 16; 28; 52; 100; 196; 388; … ecc. Se si considera come unità di misura la distanza Terra-Sole (circa 150 milioni di km, la cosiddetta unità astronomica) e si dividono i suddetti numeri per 10, la serie che risulta descrive abbastanza bene, in unità astronomiche, le distanze dal Sole dei pianeti da Mercurio a Saturno (allora il più lontano pianeta conosciuto). Mercurio avrebbe così il numero 0,4, Venere 0,7, la Terra 1, Marte 1,6, un Pianeta mancante 2,8, e poi Giove 5,2 e Saturno 10; questi numeri, secondo la legge di Titius-Bode, dicono che Mercurio dista dal Sole di meno della metà di una unità astronomica (40%), Venere del 70% dell’unità, la Terra di 1 unità, Marte di una volta e mezzo l’unità, ecc. come approssimativamente avviene.

Tradotta in termini di logica matematica la formulazione della legge, nella sua versione originale, è tutt’altro che spettacolare. E ciò in quanto la premessa “se si scrive per qualsivoglia volte …” contiene già parte della soluzione così come nel gioco dei numeri “pensa un numero, moltiplicalo per un numero qualsiasi …” la stessa serie di operazioni mentali richieste e la comunicazione del numero finale contengono già la soluzione, cioè il numero pensato.

In realtà la relazione di Titius-Bode può essere scritta in termini matematici meno ambigui e cabalistici. Diventa molto più significativa se la si enuncia dicendo (come si fa oggi riferendola però alla composizione del sistema planetario conosciuto al tempo in cui fu formulata) che la distanza di un pianeta dal Sole sta a quella del pianeta interno in un rapporto costante (costante per modo di dire poiché varia da 1,4 a 2). Due scoperte astronomiche che seguirono la formulazione della relazione di Titius-Bode contribuirono a rafforzarne la validità sia in chi vi vedeva la conferma di certi dogmi sia in chi vi intravedeva qualche significato fisico.

La prima fu la scoperta del pianeta Urano la cui distanza dal Sole corrispondeva al numero 19 (che veniva dopo il 10 di Saturno) previsto dalla relazione di Titius-Bode.

L’altra scoperta fu in un certo senso ancora più interessante. Si è detto che la serie prevedeva l’esistenza di un pianeta che si sarebbe dovuto trovare a 2,8 unità astronomiche dal Sole, una distanza intermedia tra quella di Marte e quella di Giove. L’assoluta fede nella legge di Titius-Bode, vivacizzata dalla scoperta di Urano, fece sì che in un certo ambiente astronomico si organizzasse la ricerca del pianeta mancante. Fu stabilito un programma di osservazioni sistematiche che in un certo qual senso anticipava quelli moderni di cooperazione spaziale in quanto si basava su una rete di ben 24 osservatori astronomici.

Nel 1801 Giuseppe Piazzi, direttore dell’Osservatorio astronomico di Palermo che non faceva parte del programma e che si interessava di altro, osservò un piccolissimo corpo illuminato dal Sole che viaggiava proprio là dove erano puntati, probabilmente da astronomi meno esperti di lui, i 24 telescopi dell’organizzazione. Chiamò il piccolo corpo planetario Cerere (la dea della prosperità della Sicilia) e ne seguì la traiettoria per parecchi giorni. Quando ne riferì la scoperta alla comunità scientifica Cerere era intanto sparita. L’eccitazione che la notizia suscitò in certi ambienti e la preoccupazione manifestata dagli astronomi sulla possibilità di ritrovare nel cielo il corpo così poco luminoso visto dal Piazzi, fecero sì che lo stesso Karl F. Gauss, forse la più geniale mente matematica dell’umanità, si assumesse il compito di ricalcolare le orbite dei pianeti in modo da prevederne le traiettorie con maggior precisione sì da rendere i dati del Piazzi più affidabili per ritrovare Cerere. E l’anno successivo puntualmente Cerere ricomparve.

Si scoprirono poi altri 4 o 5 corpi asteroidali ancora più piccoli di Cerere e altri ancora. Con il potere risolutivo dei telescopi moderni si è infine ricostruita l’immagine della cintura di pietre asteroidali che orbita tra Marte e Giove a 2,8 unità astronomiche di distanza dal Sole proprio là dove secondo la legge di Titius-Bode dovrebbe orbitare un pianeta. Le scoperte dei pianeti Nettuno e Plutone, rispettivamente nel 1846 e nel 1930, furono per molti una delusione in quanto le loro distanze non obbedivano alla legge.

L’ipotesi che la cintura degli asteroidi sia formata dai residui di un pianeta esploso è ancora oggi discussa anche se in un’ottica completamente diversa.

La relazione empirica di Titius-Bode (nella sua moderna riformulazione) può presentare oggi per la scienza motivi di interesse diversi da quelli che sembravano impliciti nella sua primitiva interpretazione. Il suo significato più immediato è che, nel migliore dei casi, essa funziona parzialmente e imperfettamente e quindi non è una legge nel senso che in fisica si dà al termine di legge. Riproporla o menzionarla in tale rango nei testi scolastici, come avviene ancor oggi, è quanto meno scorretto.

D’altra parte però, la sua corrispondenza con certe realtà delle distanze planetarie, anche se grossolana e parziale, può essere interpretata come un ricordo di carattere locale dell’intero sistema planetario. In altri termini, la regola delle distanze planetarie riflette in qualche modo, nell’opinione di alcuni scienziati, le spaziature che si erano create tra le fasce originali nell’interno delle quali il materiale della nebulosa ancestrale andò agglomerando i pianeti. Pertanto le teorie della formazione del sistema planetario dovrebbero contenere, secondo questi scienziati, una giustificazione della legge stessa.

Va fatto subito presente che questo modo di vedere le cose non comporta assolutamente un richiamo al concetto di “perfezione”, “armonia”, “impronta divina”, ecc. Per chiarire meglio questo concetto è forse necessario aggiungere qualche ulteriore precisazione. Se per esempio si porta ad alta temperatura l’idrogeno contenuto in un recipiente, o, in altri termini, si accende una lampada all’idrogeno, la luce emessa, vista con uno strumento che filtra piccolissimi intervalli di lunghezza d’onda si presenta come una successione di righe di luce alternate al buio.

Le distanze (le lunghezze d’onda) delle righe luminose formano una serie numerica straordinariamente semplice e perfetta (cioè senza le approssimazioni con le quali si applica la relazione di Titius-Bode). Quando Johann J. Balmer scoprì nel 1885 il comportamento delle righe di emissione dell’idrogeno, che condensò nella formula con i quadrati dei numeri in proporzione inversa nessuno capì lì per lì che cosa volesse dire ma, d’altra parte, a nessuno venne in mente di vederci segni della perfezione del creato. Fu invece chiaro che essa era un indice della “fisica che c’era sotto”. Qualsiasi futura teoria della emissione luminosa dell’idrogeno avrebbe dovuto quindi contenere implicitamente la giustificazione della serie di Balmer. E così fece la prima teoria dell’atomo di Niels Bohr e, meglio ancora, la successiva meccanica quantistica. È in questi termini quindi che va inteso oggi il termine giustificazione riferito alla serie di Titius-Bode.

Per altri scienziati invece la relazione di Titius-Bode non può essere vista nemmeno come memoria significativa del sistema solare in quanto riflette semplicemente il fatto che i pianeti non potevano crescere l’uno troppo vicino all’altro senza influenzarsi a vicenda. Se si prende una serie di distanze a caso e si eliminano quelle corrispondenti alle distanze critiche tra pianeta e pianeta si può anche ottenere, essi affermano, la legge delle distanze planetarie.

Pur se la formula di Titius-Bode è stata oggi completamente ridimensionata e non solo nei suoi aspetti mitici, essa ha ancora qualche sporadico sostenitore che la vorrebbe riqualificare in qualche modo attribuendole il rango effettivo di legge. Qualche anno fa è stata presentata una teoria che in tale ottica ristabilisce a ritroso la validità della legge di Titius-Bode. Assume cioè che quando i pianeti si formarono le loro distanze erano disposte esattamente secondo la legge senza approssimazioni. Con un opportuno programma di calcolo le distanze iniziali tra pianeta e pianeta vennero fatte evolvere tenendo conto delle perturbazioni gravitazionali dell’uno verso l’altro. Si teneva inoltre conto della presenza nell’attuale cintura degli asteroidi di un pianeta Gigante che aveva all’inizio della storia una massa 90 volte maggiore di quella della Terra. Assumendo orbite e moti molto semplificati (nessun calcolatore sarebbe stato in grado altrimenti di eseguire le operazioni necessarie) le caratteristiche geometriche del primitivo sistema solare vengono calcolate passo passo dalla sua origine in avanti.

Le distanze planetarie variano così rispetto alle distanze perfette iniziali, e procedendo nel tempo la legge di Titius-Bode perde sempre più il ricordo di se stessa. Per arrivare a giustificare ciò che si osserva oggi il programma di calcolo è costretto a far esplodere il pianeta Gigante 16 milioni di anni fa.

Benché sia stato dimostrato che se, partendo dalle stesse condizioni iniziali fissate dalla teoria, si fanno eseguire i calcoli da diversi istituti, si ottengono risultati in disaccordo l‘uno rispetto all’altro anche del 100%, la presenza dei sassi asteroidali, cioè dei residui del presunto pianeta Gigante esploso, proprio là dove secondo la teoria dovrebbe essere, è non di meno per i promotori della teoria stessa un elemento che non può essere casuale.

Per eliminare tutti i possibili dubbi e “distinguo” su basi ancora più obiettive c’è stato chi ha riprodotto lo schema dell’esplosione del pianeta Gigante di 16 milioni di anni fa, come dice la teoria, e ha calcolato cosa sarebbe successo. Va premesso che l’attuale massa degli asteroidi è in tutto circa un millesimo di quella del pianeta Terra e quindi soltanto un cento millesimo del presunto pianeta Gigante.

Ricostruite le modalità dell’esplosione in modo tale da lasciare il centomillesimo nella presente “cintura degli asteroidi”, il materiale polverizzato del pianeta Gigante avrebbe viaggiato come un’onda sferica propagantesi in tutto il sistema solare. Il getto di materia che avrebbe investito la Terra sarebbe stato “soltanto” di qualche milione di milioni di kilogrammi. Ma arrivando sulla superficie del nostro pianeta alla velocità di 60 km al secondo, avrebbe creato in poco più di un minuto una quantità di calore che (calcolando le perdite) sarebbe stato equivalente a 8 anni di irradiazione solare! Acqua per una profondità di 20 metri sarebbe entrata in ebollizione. Si sarebbe formata un’atmosfera di vapor d’acqua con una massa doppia di quella attuale.

Investita in un emisfero, la Terra avrebbe visto il cataclisma raggiungere l’altro in poche ore. Nessun punto del nostro pianeta si sarebbe salvato. Questo è appena uno degli effetti. I residui della esplosione del pianeta Gigante arrivati sul Sole avrebbero provocato una fiammata solare che avrebbe investito la Terra causando… Ma è inutile aggiungere catastrofe a catastrofe. Sedici milioni di anni fa c’era già sulla Terra una vita progredita che comprendeva anche i primordiali antenati di chi ha presentato la teoria del pianeta Gigante esploso e di chi ne ha discusso gli effetti. Se la legge di Titius-Bode, al solo scopo di rispettare gli intenti dell’artefice della perfezione, avesse veramente funzionato così, oggi noi non staremmo qui a parlarne.

([1]) L’uomo non poteva sentirla poiché c’era nato dentro.

Ottavio Vittori

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