Fulmini

L’elettricità atmosferica

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Il suo bagliore si estende anche alle diramazioni …

Impiega soltanto 40 microsecondi a percorrere due chilometri di atmosfera.

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La fine del periodo primaverile è caratterizzata da manifestazioni temporalesche accompagnate da fulmini.

Le luce abbagliante che accompagna la scarica elettrica ha un andamento che il nostro occhio non è in grado di percepire.

Nel 1926 fu inventata una macchina fotografica munita di due lenti simmetriche ruotanti velocemente in direzione opposta l’una rispetto all’altra. Dalla registrazione di innumerevoli fulmini è stato possibile ricostruire nei minimi dettagli la struttura della scarica, che è estremamente complessa.

Per farcene un’idea immaginiamo di vedere il fulmine con un occhio dotato dello stesso straordinario potere risolutivo temporale di quella macchina.

Siamo così in grado di osservare l’apparizione di una debole luminosità che, dalla base della nube si spinge verso il basso lungo un tratto di 100 metri circa per poi svanire. Dopo circa 60 microsecondi di buio, la tenue luce riappare, ripercorre i primi 100 metri e avanza di altri 100. Nuova pausa di buio. La luminosità ricompare, rillumina i primi 200 metri per progredire poi verso il suolo di un altro tratto di lunghezza uguale ai precedenti.

Questa scarica intermittente prepara, passo a passo, un tortuoso canale ionizzato (conduttore) ricco di diramazioni. Quando la debole luminosità giunge a 50-100 metri da terra, da questa si diparte un lampo abbagliante che viaggia in senso inverso lungo il canale ionizzato. Il suo bagliore si estende anche alle diramazioni. È velocissimo. Impiega soltanto 40 microsecondi a percorrere due chilometri di atmosfera.

Ma il processo non è ancora terminato. Dopo una pausa di buio totale, il nostro ipotetico occhio osserva l’apparizione di una nuova debole luminosità alla base della nube. La vede ripercorrere, questa volta con continuità, il medesimo tratto formato dalla scarica intermittente. Questa guida veloce si avvicina a terra, da dove scocca verso l’alto un secondo lampo il cui splendore è grande ma inferiore a quello del primo. E così via per 5-10 lampi nello stesso fulmine!

Il bagliore del fulmine (noi lo vediamo come un solo lampo) appare al nostro occhio “normale” come se viaggiasse dalla nube verso terra. Si tratta di un effetto ottico. La porzione di cielo in alto è più trasparente e quindi il lampo vicino alla nube è di gran lunga più splendente. Noi percepiamo lo scorrere delle immagini che si susseguono entro un tempo inferiore a un venticinquesimo di secondo (il potere risolutivo temporale dell’occhio) a partire dalla più abbagliante. Ed è per questo motivo che lo vediamo scoccare dalla nube verso terra, vale a dire in direzione opposta a quella reale.

Se l’occhio umano funzionasse come la macchina prima descritta la leggenda di Giove che scaglia i suoi dardi luminosi per punire o ammonire avrebbe probabilmente assunto una veste diversa.

Innumerevoli sono le credenze popolari sui fenomeni elettrici atmosferici. Tra le tante c’è quella concernente l’efficacia del suono delle campane per limitare i danni provocati dalla caduta dei fulmini. Per parecchi secoli, all’avvicinarsi dei temporali, vigeva in Europa la pratica di inginocchiarsi per pregare e nello stesso tempo di mandare di corsa i campanari a scuotere violentemente i batacchi dei bronzi delle chiese. La povera gente credeva che il pio comportamento dell’orazione corale fosse in grado di disperdere i cattivi spiriti che alimentavano le scariche mentre le persone cosiddette colte ritenevano che il suono delle campane creasse onde di pressione nell’aria d’intensità tale da interrompere la continuità del percorso del fulmine.

Questo è il motivo per cui in molti cimeli di campane medioevali si trova incisa la frase “Fulgura Frango” (rompo i fulmini). Tuttavia, nel corso del tempo, questa operazione di salvaguardia fu soggetta a dura critica. Nel 1786 il parlamento di Parigi giudicò necessario rinnovare un editto, promulgato per la prima volta da Carlo Magno, che metteva al bando siffatta pratica in considerazione cel pericolo mortale al quale erano esposti i campanari.

In un libro dal titolo “Prove che il suonar le campane durante i temporali può essere più dannoso che utile”, pubblicato due anni prima a Monaco, venivano presentati i risultati di un’indagine capillare, oggi la definiremmo di natura statistica, atta a dimostrare che almeno otto su dieci campanari erano rimasti fulminati mentre scuotevano i batacchi dei bronzi.

Un’altra leggenda da sfatare riguarda il motto “Il fulmine non colpisce mai due volte”. L’esempio più probante dell’erroneità di questa affermazione è il campanile della Basilica di San Marco a Venezia. Fu gravemente danneggiato dai fulmini nel 1388 quando era ancora fatto di legno. Nel 1417 prese addirittura fuoco. L’incendio divampò in modo così violento da ridurlo a un mucchio di cenere. Fenomeni analoghi si verificarono negli anni successivi. Nel 1745, colpita dal fulmine la torre andò in completa rovina.

Giova menzionare tuttavia che nel 1766, a seguito delle prime scoperte scientifiche sull’elettricità temporalesca, la cima della torre fu munita di un parafulmine tipo Franklin (un lungo filo metallico sporgente collegato a terra) e da allora il campanile della Basilica di San Marco non fu più colpito dalle scariche temporalesche.

Altre manifestazioni dell’elettricità atmosferica possono assumere aspetti così suggestivi da risultare inimmaginabili per la nostra mente. Quando il campo elettrico esistente tra atmosfera e superficie terrestre non è sufficientemente intenso da generare il fulmine si crea nell’aria vicina a noi una scarica che non vediamo poiché in generale non emette luce. In particolati circostanze tuttavia (punte sporgenti da vaste superfici piane) questo tipo di scarica è accompagnato da emissione di luce. Coloro che l’hanno vista la paragonano a quella creata dalla fervida fantasia di alcuni registi di film di fantascienza.

Dai punti sopraelevati si diparte una fiamma di intensa luminosità le cui propaggini si spingono ad altezze anche di parecchi metri. Disegnano nell’aria figure che assumono via via le vesti più cangianti tanto da risvegliare nella mente dell’osservatore gli incubi di diavoli e streghe, tipici dell’età infantile. Valga come esempio il resoconto del capitano di una nave che ne 1902 si trovava nelle acque al largo di Capo Verde. «Per un’intera ora il cielo sopra la nostra testa fu un guizzare di luci dai colori mutevoli. Le fiammate, dal rossiccio al bluastro, si dipartivano dalla cima degli alberi del battello e dalle sporgenze dei pennoni. Si udiva nel frattempo un suono sordo straordinario simile a quello emesso da centinaia di migliaia di cicale o al crepitio di un enorme mare d’erba in fiamme».

Luci dello stesso stipo sono state osservate anche da escursionisti montani. Notizie, del tutto attendibili, riferiscono di lunghe fiamme luminose emesse dalla cima appuntita delle rocce e talvolta dai corpi stessi degli scalatori. Dal capo e dalle estremità si diramano fiammelle di intensa luminosità. La luce “emessa” dalla testa assume la configurazione di un vero e proprio alone, quello, per intenderci, che circonda il capo degli angeli e santi nei dipinti sacri.

Poiché queste manifestazioni luminose vengono il più delle volte osservate sulla cima degli alberi di navi di mare aperto sono citate nella letteratura scientifica come “fuochi di Sant’Elmo”, il santo protettore dei naviganti del Mediterraneo. Spesso il fuoco di Sant’Elmo si forma sulla cima dei bastioni che delimitano il grande porto di Malta. I marinai inglesi lo chiamano “corposant”.

L’apparizione dei fuochi di Sant’Elmo viene accolta dai naviganti come un messaggio di buon auspicio. La burrasca sta allontanandosi e presto la navigazione potrà essere ripresa senza pericolo.

Shakespeare menziona questo fatto nella sua opera “La tempesta” (atto 1°, scena 2a). Cristoforo Colombo in burrascosa navigazione “verso le Indie” prese spunto dall’apparizione dei fuochi di Sant’Elmo per convincere i suoi marinai che “il peggio era passato”.

Qualcuno forse si stupirà nell’apprendere che questa credenza trova riscontro nella realtà del mondo fisico. Infatti le condizioni ambientali per l’instaurarsi dei fuochi di Sant’Elmo sono la diminuzione dell’intensità del campo elettrico temporalesco esistente tra atmosfera e superficie terrestre nonché un maggior livellamento delle onde del mare (al calar della mareggiata la superficie d’acqua circostante diventa più pianeggiante), tutti segni oggettivi che la tempesta si sta allontanando da quel tratto di mare.

Si potrebbe andate avanti con altri episodi. La elettrizzazione per strofinio è responsabile dei fuochi fatui (così vengono chiamati in termini più generali i fuochi di Sant’Elmo) che rendono ancor più terrificanti nella mente dei beduini le violente tempeste di sabbia che si creano nel deserto.

Ottavio Vittori

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